L’insolito tram tram: come trasformare un incontro ordinario in un’esperienza straordinaria
Spostarsi con i mezzi pubblici è ecologico: inquina meno; consente di fare qualche passo a piedi; protegge dagli scontri verbali e gestuali tra automobilisti incattiviti dall’immobilità; permette di leggere – anche solo lo schermo del telefono – senza provocare danni collaterali. E, soprattutto, mette in contatto le persone tra di loro: genera scambi, micro-relazioni, pensieri.
Que reste-t-il de nos amours
Salgono insieme: prima lui e poi lei, che stringe i biglietti i e timbra per entrambe. Lui supervisione l’operazione fluttuando appeso alla maniglia. Avranno sui settant’anni. Lei indossa un blazer rosa cipria di panno sopra una gonna grigio scuro gessata, mocassino mezzo tacco stile Valleverde, calze un po’scure ma velate. Si siede accanto a me, lui resta in piedi a dondolarsi, forse vorrebbe sedersi dove sto io, il lato libero non gli è congegnale. Scommetterei che lei dorme alla sua sinistra.
Ora posso osservarli da vicino.
Lei è truccata con cura: eyeliner sulla palpebra superiore e un velo, forse un po’ generoso di cipria sulla pelle liscia e chiara. Capelli sottili, cotonati, bianchi per tre quarti con un residuo di tinta biondo pulcino sulle punte, raccolte in un tentativo di crocchia fermato da un fiocco di tulle blu. Appena seduta comincia a frugare nella borsetta nera. Si agita. Ha perso gli occhiali. Lui guarda a terra. Non ci sono. Lei è sempre più nervosa, toglie una busta A5 dalla borsa e gliela porge per poter cercare meglio. Lui dondola.
Ha volto rugoso e colorito, giacca di lino e seta color sabbia, camicia azzurra, cravatta blu con piccoli disegni geometrici ripresi dal fazzoletto di seta infilato a sbuffo nel taschino. Appuntato all’occhiello lo stemma del Milan. Si dondola seccato con la busta in mano, spostando il peso da una scarpa da trekking leggero Scarpa, color sabbia, all’altro. Indossa jeans azzurri con la cinta stretta troppo in alto che sottolineano le gambe magre da uomo anziano.
A Winter Shade of Pale
Gli occhiali, da sole, finalmente saltano fuori e lui si affretta a restituirle la busta. In quel preciso istante suona il telefono di lei: A Winter Shade of Pale dei Procol Harum. Che sorpresa!
Mentre lei si affanna a spegnerlo (gli schermi degli smartphone sembrano ostili ai polpastrelli di chi ha più di cinquant’anni) io immagino un figlio, o forse un nipote, che con l’aiuto di Shazam (“sai quella canzone che riprende un’aria di Bach che fa…”) le carica questa suoneria che fa tanto anni ’60. Probabilmente gli anni in cui la signora ingessata dentro il blazer rosa cipria troppo pesante per la stagione ha conosciuto il signore irrequieto con il blazer sabbia. Poteva essere il 1968. E se fosse la canzone con la quale si sono innamorati ballando un lento?
Probabilmente loro non lo hanno fatto il Sessantotto. Lei perché ci teneva troppo al suo twinset di cachemire beige con il filo di perle, lui perché appena preso il diploma di geometra era entrato nell’impresa del padre. E questa mattina si presentano come una coppia insofferente-ansiosa dove non si scambia una parola. O forse non ne hanno bisogno: ruoli consolidati, ognuno fa la sua parte. L’ombra di un pallore invernale ha steso il suo velo.
Sono arrivata, abbiamo viaggiato insieme il tempo di due fermate ed è stato come guardare un film di due ore.
Prima di scendere butto un’occhiata alle mie spalle: lui si è accomodato al posto che occupavo io. Ora siedono fianco a fianco nell’ordine per loro naturale e tacciono fissando un punto imprecisato fuori dal finestrino. Al diavolo il Bach bistrattato dalla pianola dei Procol Harum! Io faccio il tifo per l’allegra malinconia di Charles Trenet. Titoli di coda.