Reagire per non lasciarsi travolgere dalle avversità. Un modo di “pensare positivo” dall’efficacia discutibile. E cosa si intende per reagire? Avanzare impavidi tra le onde finché non se ne verrà travolti? Restare in piedi anche quando la terra trema sotto di noi?
Siamo di fronte all’ennesimo binario morto, ma soprattutto a chi dice che se l’è cercata. Alessandro Bergonzoni
Ci sono situazioni che ci colgono impreparati e che pertanto non sappiamo come governare. Gli strumenti che abbiamo a disposizione ci paiono inadeguati (diversamente, li avremmo già utilizzati) e pertanto ci sembra che non esista alcuna possibilità per trarci d’impaccio.
L‘impasse prima che imbarazzo, paura, disagio, depressione – e via peggiorando – potrebbe invece essere una zona di decompressione dove fermarsi a riposare?

Take your time
Quanto tempo occorre? Quanto a lungo? Chi può saperlo! Prendersi il proprio tempo significa misurarsi coi limiti, quelli esterni e quelli nostri, con i quali dovremmo fare i conti quando cominciamo ad avvertire uno scricchiolio come ghiaccio di un iceberg che si sta rompendo. E invece continuiamo a danzare sul ponte del nostro Titanic!
Reagire è un’urgenza tutta moderna. Andare avanti comunque per giungere alla meta secondo un programma prestabilito. Una griglia di protezione che ci viene costruita intorno fin da quando veniamo al mondo, si chiama punteggio Apgar (utilissimo, per carità!) se non venisse adoperato da puerpere e parenti per misurare la “perfezione” dei propri bebè. Ho assistito a questo confronto nei corridoio di neonatologia. Poco oltre, l’inaccessibile reparto di Terapia Intensiva Neonatale dove altri nuovi nati, inclassificabili secondo i normali parametri, reagivano – loro sì – alle circostanze avverse della propria nascita aggrappandosi alla vita oltre ogni ragionevole probabilità di sopravvivere.
Occhio-per-occhio dente-per-dente
Più ci penso e più mi domando se questa esortazione a reagire non sia un rispondere colpo su colpo agli accidenti. Detto altrimenti: se uno ti “twitta” contro, “twittagli” contro a tua volta o, se ti ritieni più evoluto, lancia una petizione in rete. Gli esiti li vediamo ogni giorno.

E se la strada fosse “mostra l’altra guancia“? Attenzione non nel senso “se prendi uno schiaffo fattene dare un secondo”, bensì “se ti sei trovato in campo impreparato sul terreno di gioco, cambia gioco, metti in campo altre risorse”. Considera la situazione sotto un altro profilo.
“Tanto tu le risorse le hai”
E a proposito di risorse, avverto una perfidia sottile in questa frase di buon senso comune che vorrebbe suonare come una rassicurazione per chi si trova in difficoltà. È come tendere la mano a qualcuno e poi mollare la presa: totale mancanza di umana compassione.

Se compassione significa condividere con qualcuno la passione, allora occorre che le forze si uniscano affinché ne scaturisca qualcosa di nuovo, un progetto comune dove le risorse vengano alla luce per il gusto di fare le cose per bene.
In L’uomo artigiano cercai di mostrare come testa e mano siano collegate, e inoltre quali sono le pratiche empiriche che consentono alle persone di migliorare in ciò che fanno, siano esse impegnate in attività intellettuali o manuali. Quella di fare le cose bene per la soddisfazione di farle bene, sostenevo in quel libro, è una qualità che quasi tutti gli esseri umani posseggono, ma che non gode nella nostra società del prestigio che merita. L’artigiano che è in noi attende ancora di essere liberato.
Richard Sennett Insieme
L’eleganza di un lavoro ben fatto
Un lavoro ben fatto è una gioia per lo spirito e un piacere per gli occhi. Recentemente ho trascorso parecchio tempo in contemplazione della Cattedrale di León, la quale mi si è rivelata in tutta la sua elegante fragilità. Ambizione e perizia. Progetto e lavoro. Visione e fiducia nel futuro. Questo mi pare un buon paradigma per stare al mondo con la leggerezza necessaria a godersi la vita, nonostante le difficoltà.
Il mondo come lo vorrei è un luogo dove ciascuno può agire con passione senza bisogno di reagire alle circostanze avverse.