Guardo il mondo da un oblò, mi annoio un pò *… Oddio sto impazzendo, signore aiutami a trovare la pazienza ché da sola non ce la posso fare.
Dove sono le famiglie che condividono divano, popcorn e copertina alla luce azzurrognola dello schermo televisivo? Perché la mia non è una di quelle? Dov’è che si fa domanda per riceverne una così? Da dove si comincia per arrivare in lockdown preparati a una convivenza forzata di quattro persone in 85 metri quadrati? Nemmeno la pizza mi riesce bene!
” Cara signora, l’educazione è un processo che inizia da lontano, addirittura da prima che i figli nascano”.
La preside della scuola di Elisa, un’illustre pedagogista nubile e senza figli, ma molto stimata dai colleghi come non mancava mai di sottolineare, aveva spento in me ogni ambizione genitoriale declassandomi al rango di “madre si fa per dire”.
” Come mai le importa tanto del giudizio degli altri? Lei sta facendo il massimo come madre, non è vero?”
La psicologia della scuola di Antonio la faceva facile, ma ogni colloquio, ogni riunione dei genitori, ogni verifica è per me la dimostrazione del mio fallimento.
Ho letto anch’io qualcosa di Winnicott, ma siamo realisti, la madre sufficientemente buona è un ossimoro: in questa parte di mondo, in questo momento e vorrei aggiungere in questa classe sociale o sei molto agguerrita, prepotente e un bel po’ ottusa e segui l’istinto di tigre che difende i cuccioli a ogni costo oppure sei – scusate ma lo devo proprio dire – una madre di merda.
Sono mediamente istruita; laureata. Sono nata in una famiglia di belle persone rispettose delle regole che tenevano all’onestà, al decoro e alla buona reputazione e sono stata una brava bambina studiosa. Potrei esibire credenziali adeguate agli standard dell’illustre pedagogista ma temo che siano proprio queste a fare di me un’interlocutrice scomoda.
“Lei è la madre di Elisa Perego? Posso dedicarle solo due minuti”.
Credete che abbia avuto il coraggio di replicare che era stata lei a convocarmi urgentemente il giorno prima tramite telefonata della segreteria? E che avendo abbandonato un lavoro – che dovevo consegnare il giorno stesso – quella che avrebbe dovuto avere solo due minuti ero io?
Avevo voglia di spaccare qualcosa, mi ero fissata sul trofeo della squadra di pallavolo anno scolastico 1977/78 – quello in cui sono nata io – e fantasticavo di lanciarlo contro l’anta a vetri dell’armadio dell’Enciclopedia Treccani dietro alla scrivania sfiorando l’orecchio sinistro della preside. Ho resistito all’impulso per tutti i 45 minuti in cui mi ha tenuto inchiodata alla sedia con argomentazioni di una violenza che mi toglievano il fiato.
Sinossi: siamo un liceo di eccellenza. Sua figlia non è adatta per questa scuola.
” Ognuno ha i propri limiti: io non potrei mai scalare l’Everest, per esempio”.
Aveva concluso l’illustre esperta dei processi psico evolutivi sistemandosi l’elastico alla base del reggiseno che, giuro, le era sfuggito producendo un rumore secco solo leggermente ovattato dal grasso che le si arrotolava come un involtino intorno alle costole.
Insomma mia figlia in quella scuola pubblica non ce la volevano. Il regolamento permetteva a Elisa di ritirarsi ed evitare la bocciatura. I termini scadevano alla fine della settimana seguente. Il lockdown è arrivato prima, la scuola non ha più riaperto e un altro regolamento ha impedito che venisse bocciata. Ma non ha impedito che la mia vita sprofondasse in un girone infernale ancora più soffocante, buio e inesorabile di quello in cui mi trovavo.
Il tavolo del soggiorno se l’è preso mio marito bancario.
Ha piazzato il suo laptop, i documenti, il portacenere (che meraviglia poter fumare durante il lavoro) e ha chiuso la porta con tanti saluti a tutti.
Elisa con il tablet sta in camera e solo io so quanto sto combattendo ogni singolo giorno per evitare che si colleghi in pigiama,
il letto sfatto alle spalle, in ritardo, fingendo che la connessione non supportasse la webcam.
Ad Antonio, per esclusione, è toccata la cucina:
per convincerlo ho dovuto regalargli un nuovo computer di quelli fissi, buoni per giocarci e una nuova scrivania che ora ostruisce la porta finestra verso il balconcino, cui non posso mai accedere perché, anche dopo le lezioni, Antonio sta incollato ai suoi videogiochi.
Siccome cucinare durante le ore di DAD è impensabile, preparo e porziono i pranzi all’alba.
Servo le colazioni a letto così da avere il tempo per riordinare prima che i prof occhiuti di Antonio vengano a curiosare se il lavello contiene piatti sporchi. Per andare in bagno aspetto che tutti si siano collegati. Intanto sistemo la camera da letto dove lavoro io, dispiegando ogni mattina il paravento giapponese nel caso, raro, in cui dovessi collegarmi. In realtà è per escludere il resto della stanza dalla mia vista.
Per inciso io faccio la traduttrice, sono una smart worker ante litteram e non ho mai avuto uno spazio mio nella casa, quindi non mi manca. A mancarmi sono qualche ora di libertà e di solitudine e l’aria, sì ho fame d’aria.
Nessuno finora si è preso il COVID
Se accadesse, qualcuno dei non contagiati dovrebbe andare a dormire sul divano letto in soggiorno e questo gli darebbe il diritto di rivendicare l’uso esclusivo del televisore. Mio marito dovrebbe smetterla di fumare al tavolo di lavoro e ci sarebbero continue dispute sull’ora di inizio delle attività. Se ad ammalarsi fosse Antonio dovrei trasferire il suo computer nella stanza dei ragazzi mentre Elisa dovrebbe andare in DAD dalla cucina. ” Scordatevelo, piuttosto morta“.
Se ad ammalarsi fosse lei, Antonio dormirebbe in sala: eviterei i traslochi ma non il conflitto territoriale col padre. Se ad ammalarsi fosse lui, perderei il mio spazio dietro al paravento, ma acquisterei il dominio del soggiorno. Se si ammalassero tutti, io starei comunque in sala, ma passerei la giornata a pulire e sanificare ogni volta che qualcuno esce dal bagno.
Ferma, la testa, Giovanna, fai un respiro profondo.
Mi preoccupo sempre per tutto e mi dimentico di occuparmi del presente.
Forse lo faccio proprio per questo, per non vedere che disastro sono la casa e le nostre vite. La mia vita, in particolare. Ma chi ha tempo di pensarci? E se ad ammalarmi fossi io? Sono io che vado al supermarket, in edicola, dal tabaccaio, in farmacia…Non ci voglio nemmeno pensare. Se provo a immaginarmi malata vedo musi lunghi; sento le voci dei ragazzi che litigano e di mio marito che li rimprovera e poi porte che sbattono, stoviglie che cadono, spezzoni di conversazioni: “Non c’ho sbatti!“
Una casa più grande renderebbe migliori le cose? Forse, ma chi se la può permettere? D’accordo, il mutuo è sospeso, ma prima o poi verrà ripristinato, forse dovremo rinegoziarlo forse pagheremo di più per stare nei tempi stabiliti oppure allungheremo il tempo necessario a estinguere il debito. In ogni caso i progetti per il futuro sono già saltati.
“ Lascia perdere, Giovanna, questo è il mio lavoro, non il tuo. A proposito, domani ho la riunione con i capi, dov’è la mia camicia bianca? Non l’hai stirata? Non dirmi che è ancora da lavare”.
È stato così che mi sono trovata nel ripostiglio della lavatrice ad attendere spasmodicamente che terminasse il ciclo lavasciuga rapido in 45 minuti, che consuma energia elettrica quanto una catena di montaggio. Nello stanzino c’è anche il contatore che ho imparato a tenere d’occhio per anticipare il black out domestico e il successivo, inevitabile, pandemonio di connessioni saltate, documenti persi, azzeramento catastrofico dei punteggi per il passaggio di livello. Dialogo con gli elettrodomestici: conto nove secondi dall’istante in cui premo il pulsante di avvio della lavastoviglie e l’entrata in funzione. La lavatrice emette quattro beep quando termina il ciclo e occorre contare fino a 15 prima di apire l’oblò e intanto qualcuno da qualche parte della casa urla: “Un giorno te la spacco quella lavatrice!”
Seduta a terra nello stanzino, schiena appoggiata alla scarpiera, sono finita in trance fissando la camicia di Sergio che girava insieme a biancheria e T-shirt. Non ricordo cosa sia accaduto, se non che il mio sguardo è passato dall’oblò della lavatrice con i bucato bianco a quello piazzato in mezzo alla parete del ripostiglio che incorniciava una perfetta luna piena. Luna, bucato, luna…Mi sono ritrovata in mano una tavola da snowboard, una mazza da hockey, un pallone di cuoio mezzo sgonfio, delle scarpette da danza con la punta rigida consumata.
“Cos’è sto casino?”
Lo stendibiancheria, il robot pulisci pavimenti, la cassetta degli attrezzi, l’annaffiatoio, il grasso per gli scarponi, il tappetino da yoga, un trolley giallo, un ombrellone da spiaggia. “Allora la finisci? Non sento la tv!”
L’album delle foto del matrimonio, la tavoletta della piscina, la scatola del cucito, le decorazioni dell’albero di Natale, la cesta del bucato da stirare, lo sturalavandini, sei bottiglie di minerale. “Ehi, venite a vedere, sta buttando fuori la roba dal ripostiglio!”
La scopa, il poster del Che, un tubo di Millechiodi, l’asse da stiro, uno stivale di gomma, guanti di gomma, una gomma da masticare secca, lo straccio del pavimento, uno scarafaggio morto.
“Adesso basta!”
Sergio stava arrivando dal fondo del corridoio. Tre passi e sarebbe inciampato nel manico del mocio. Ho chiuso la porta a chiave e mi sono barricata all’interno con la musica a palla negli auricolari
- “Giovanna, che ti ha preso? Apri!”
- …
- “Mamma, apri per favore”.
- …
- “Non fare l’egocentrica, sei patetica!”
- …
- “Fai come vuoi”.
Quando sono stata certa che tutti dormissero, ho aperto la porta
e rimesso dentro gli oggetti sistemandoli in modo tale che si creasse uno spazio vuoto sotto l’oblò, in punta dei piedi ho trasportato dalla camera il tavolino e la sedia pieghevoli su cui lavoro e li ho appoggiati alla parete così alzando gli occhi dal computer posso vedere un occhio di cielo. Ho nascosto la lavatrice dietro il paravento giapponese e mi sono addormentata rannicchiata sul tappetino da yoga nello stanzino tutto per me.
Ho sognato la preside che guidava un camion di traslochi mentre Sergio danzava sulle punte delle scarpette rosa nel soggiorno senza più mobili; Elisa con la faccia dipinta da guerriera che prendeva a mazzate lo stivale di gomma; Antonio che incollava il chewing gum sullo scarafaggio con il Millechiodi. E me stessa che uscivo dall’oblò a cavallo del mocio con le palle dell’albero di Natale come orecchini e i nastri d’argento avvolti intorno al collo.
nota* non c’è verso di fare accettare l’apostrofo al programma.
2 ottobre
Pandemonio, storie per rimettersi al mondo
10 ottobre:
Star
17 ottobre:
Mitridatizzazione
24 ottobre:
Hikikomori
31 ottobre:
Ape
7 novembre:
Recovery fund
14 novembre:
Pandemonio