Star seduta non è la mia specialità, mi ci sono dovuta abituare da che faccio la sarta a domicilio. Ci vuole un bel coraggio, con tutta la concorrenza dei cinesi, soprattutto perché a Chinatown io ci vivo. Occorre essere matti o disperati per entrare a gamba tesa in un mercato già saturo con manodopera a bassissimo costo. Io sono tanto matta quanto disperata.
Le cose sono andate così:
lavoravo nel campo delle risorse umane, in azienda ero una specie di autorità nella valutazione delle STAR (situation, task, action, result). Oltre ai miei colloqui supervisionavo quelli dei colleghi, tenevo periodicamente corsi di formazione e aggiornamento, ultimamente facevo anche la valutatrice dei valutatori, segando in pratica il ramo su cui stavo seduta.
Un giorno qualcuno si è risentito, mi ha dichiarato guerra e nell’arco della settimana più movimentata della mia vita ho perso lavoro, fidanzato (se a 47 anni si può ancora definire così il tizio con cui stai) e casa. Bel colpo, vero?
Concentrare integralmente la mia vita su lavoro e azienda è stata una strategia grossolana,
foriera di errori imperdonabili: niente lavoro niente stipendio; niente stipendio niente quota del mutuo; niente quota del mutuo niente casa. E il fidanzato? Lui si trovava all’inizio della catena, è stato lui, più giovane e di grado gerarchico inferiore, a mettere in moto la macchina che mi ha stritolato.
Il lunedì mattina tenevo il corso di aggiornamento dei selezionatori; il lunedì successivo stavo a letto avvolta nel piumone come un bozzolo; quello seguente ho deciso di telefonare a mia zia Silvia e in capo a una settimana mi sono trasferita da lei, a Chinatown, nella casa in cui in pratica sono cresciuta perché mia madre, single e infermiera non ce la faceva a starmi dietro. A Chinatown, che ai tempi era un quartiere sordido, caotico e non troppo pulito, ho fatto le scuole fino alla terza media e ho appreso le prime nozioni di mandarino.
Mattino, pomeriggio, mattino, notte, smonto, riposo: i turni di mia madre sono stati la mia ninnananna.
Su e giù dalla macchina, infagottata nella copertina dal Giambellino a piazza Gerusalemme dove la zia Silvia si faceva trovare a qualunque ora del giorno per prendermi in consegna e restituirmi a mia madre al termine del turno all’ospedale dei bambini. Finché un giorno, entrambe esauste, con me che urlavo per i dentini, si sono accordate che io restassi a vivere con Silvia dove mia madre mi avrebbe raggiunto al termine di ogni turno. Avrebbe pagato lei le spese per il vitto, provveduto a fare la spesa, e cucinato per tutte e tre, così da permettere a Silvia di continuare a lavorare da casa come sartina.
Ho bellissimi ricordi della mia infanzia con le due mamme:
solare, estroversa, e curiosa di tutto Silvia; dimessa, introversa e riservata Sofia. Silvia mi portava a spasso e mi parlava tutto il tempo. Quando lavorava, io mi accoccolavo nella grande poltrona a fiori del salotto, dove aveva trasferito il suo laboratorio per lasciare a me la stanza del cucito. A volte giocavamo a “Vai. Ferma”: la macchina per cucire partiva e si arrestava al mio comando vocale a distanza. Ma solo se il lavoro non era troppo urgente, in quel caso la rotellina girava a tutta birra incurante dei miei ordini. Zia Silvia teneva sempre la radio accesa su Radio Tre dove alle 17 andava in onda la lettura di un romanzo che seguivamo entrambe incantate. I clienti sapevano che non dovevano presentarsi dopo le cinque e prima delle sei del pomeriggio. E se telefonavano, Silvia non rispondeva.
Devo molto a Silvia e Sofia, tutto ciò che sono diventata è grazie a loro,
alla loro cura, alla complicità severa dell’una che compensava l’accondiscendenza amorevole e timorosa dell’altra. Con il loro cognome, Cattaneo, mi sono fatta strada nel mondo; con il nome Penelope che mia madre aveva scelto per me consultandosi con la sorella ho indirizzato il mio destino.
Non sapevo quale fosse il mio posto nel mondo finché non mi sono ritrovata a gestire in prima persona il minuscolo atelier di Silvia, che, contagiata dal COVID nella prima ondata della primavera 2020 tossiva nella sua stanza. Ultra ottantenne, robusta fumatrice per nulla incline a morire aveva convinto il suo medico che andare in ospedale sarebbe stato una follia. Si era chiusa in camera con la radio accesa, probabilmente giorno e notte, da cui era uscita dopo sei settimane, magrissima, incurvata e rallentata nei riflessi e con una nuova profondità nello sguardo.
La mattina che si è sentita sufficientemente in forze è venuta a sedersi nella poltrona a fiori
e mi ha osservato sbalordita mentre prendevo le misure a una nuova cliente inquadrata nello schermo del computer.
- E che diavoleria sarebbe questa?
- Si chiama Zoom è un programma che ti permette di vedere e parlare con una o più persone a distanza.
- E come fai a essere sicura che le misure siano giuste?
- La vedo.
- E per le prove come fai?
- Da qualche settimana posso andare a casa della cliente. Prima le mandavo un corriere oppure ci incontravamo al supermarket: le davo il modello, lei lo provava davanti al computer, facevamo gli aggiustamenti e me lo riconsegnava con lo stesso sistema.
- O bella, questa sì che è nuova.
Aveva osservato Silvia divertita mostrando tutta la fatica dello sforzo di immaginazione cui le mie parole l’avevano sottoposta. Aveva atteso pazientemente la conclusione della chiamata, pisolando avvolta nel plaid, prima di rivolgermi di nuovo la parola.
- Vuoi dire che fai la sarta con il computer
- In parte sì.
Le avevo mostrato dapprima il database delle clienti e poi il programma di modellistica in AUTOCAD.
- E quest’altra diavoleria dove l’hai imparata?
- Ti ricordi quando ti sei ammalata? Era metà marzo, ci avevano chiusi tutti in casa e allora ne ho approfittato per fare un corso.
- Senza uscire di casa?
- Sì, senza uscire di casa.
- Robe da matti! Ma non funzionerà. Prendi una come la Cervetti, critica com’è figurati se si fa fare i vestiti al computer.
Le ho mostrato sul telefono un selfie della Cervetti con indosso un paio di pantaloni ampi in jersey color albicocca che gli utenti di Facebook avevano premiato con 163 like.
- Quella malmostosa della Cervetti ha 163 amici?
- A questa domanda non so rispondere, però i pantaloni glieli ho fatti io, vedi lo dice anche qui “modello di Penelope Cattaneo” e questo mi ha portato altre clienti.
- Robe da matti.
Silvia si era riappisolata. Aveva lottato per tutta l’estate contro la spossatezza, ma non mi toglieva gli occhi di dosso, combattuta tra curiosità e scetticismo.
- Ha fatto bene la tua povera mamma a farti studiare.
- Siete state entrambe, le mie due mamme.
- Eri così pasticciona con ago e filo e non eri nemmeno portata per fare l’infermiera. Tua madre e io non sapevamo a che santo votarci quando te ne sei venuta fuori con la storia di fare psicologia.
- Me lo ricordo, è stato uno shock. Non ti ringrazierò mai abbastanza per quei tre mesi in cui non mi hai parlato dopo che avevo risposto male a Sofia.
- Ehi, bada a come parli, non azzardarti a chiamarla per nome. Anche se è morta da tanti anni le devi rispetto.
- Non era mia intenzione.
- Lo so, lo so. Neanche l’altra volta lo avevi fatto per cattiveria, lo dico io alla mamma, ho appuntamento con lei e le dico che sei diventata una stilista come il Giorgio Armani.
Silvia mi ha preso la mano, l’ha posata sul bracciolo della poltrona a fiori per potermela accarezzare con la sua, fredda e ossuta.
La mattina dopo quando come ogni mattina sono entrata nella sua stanza con il caffè l’ho trovata sul letto immobile, con addosso l’abito che si era cucita per il suo funerale. Non l’avevo mai vista vestita di bianco e questo mi ha stupito ancora più del fatto che avesse presagito la morta con tale precisione da farsi trovare vestita di tutto punto come era sempre accaduto per tutta la sua vita.
Quando a fine ottobre Silvia se ne è andata per onorare il suo appuntamento con Sofia ho avuto la sensazione che si aprisse una voragine nel pavimento dell’ingresso. Ero appena rincasata dal funerale.
- Vieni vestita come si deve, con un cappotto nero, con una bella sciarpa bianca come quella di Giuseppe Verdi e con gli orecchini di perle e non fare la faccia da funerale che non è proprio il caso.
Ho lanciato le scarpe in aria e mi sono rifugiata nella poltrona a fiori. Sono rimasta così per alcuni giorni domandandomi che fare. Silvia aveva già provveduto negli anni a eliminare o a dar via tutto ciò che le apparteneva, risparmiandomi la fatica di scegliere.
Guardandomi intorno mi sono accorta che quella casa era già mia da tempo, che l’avevo a poco a poco adattata ai miei gusti e alle mie necessità. Silvia me lo aveva permesso, in silenzio, con discrezione, lasciando spazio alla vita cui lei apparteneva sempre meno. Avrei potuto ripristinare l’antica stanza del cucito ma ho preferito tenerla come camera da letto. Il soggiorno-laboratorio poteva continuare a funzionare come fino a quel momento, non occorreva cambiare nulla, tutto poteva procedere senza spezzare il filo che univa me, le mie due mamme e la loro madre che aveva acquistato quell’appartamento con i risparmi di una vita di lavoro nella merceria di famiglia.
È per questo che mi hanno chiamato Penelope, ora l’ho capito.
Continuerò a lavorare come sartina in casa, magari studierò la tecnica per stampare abiti in 3D. Fare il fenomeno non mi si addice, mi basta guadagnarmi da vivere e avanzare qualcosa per viaggiare. Quando mi valuto sono soddisfatta di me: comunque vada, quale che sia la situazione so qual è il mio compito, come agire e che farmene dei risultati che porto a casa. Io e le mie antenate siamo delle STAR.
17 ottobre:
Mitridatizzazione
24 ottobre:
Hikikomori
31 ottobre:
Ape
7 novembre:
Recovery fund
14 novembre:
Pandemonio3 ottobre:
Oblò
2 ottobre
Pandemonio, storie per rimettersi al mondo