Mitridatiżżazióne s. f. [der. di mitridatizzare]. – Processo o stato di relativa refrattarietà, progressivamente acquisita, verso una determinata sostanza tossica o medicamentosa; anche in senso fig. (v. mitridatizzare).
Tutte le relazioni sono rischiose. Mia nonna soleva dire che: “i parenti sono come le scarpe, più sono stretti più fanno male”. Lo sussurrava quasi tra sé, (ma non abbastanza perché non la udissi) più o meno ogni volta che suo figlio, cioè mio padre, le faceva qualche carognata, il che accadeva abbastanza spesso.
La mia amica Clarissa, un’incurabile idealista, aveva trovato nel ruolo di predestinata il suo posto sulla scena del mondo.
Sempre in prima fila come capro espiatorio dove si profilava all’orizzonte una causa persa, sembrava essere stata investita ripetutamente da un rullo compressore. La mestizia del suo sguardo le aveva scavato il viso come un basso rilievo dove nemmeno il naso, schiacciato come quello di un pugile, aveva rilevanza. Una maschera vista dal rovescio, la sua, come il calco del volto di un defunto cui neppure i capelli sottili, radi e immobili, riuscivano a dare una sferzata di vitalità.
Clarissa era proprietaria, responsabile amministrativa e unica addetta dell’impresa di pompe funebri che aveva eredito dal marito, alcolista e violento, morto di cirrosi epatica a 54 anni.
La pandemia l’aveva colta di sorpresa, un simile incremento di domanda avrebbe richiesto più risorse
ma Clarissa se l’era cavata comunque grazie al fatto che i funerali erano stati declassati a formalità e ogni giorno se ne celebrava più d’uno. Il fatturato era aumentato rapidamente e Clarissa cominciava a sperare di poter accarezzare il sogno di una casa di proprietà, una vera casa con tanto di giardino al posto del retrobottega con cucinotto e bagno dove viveva.
Nei pressi di Bellagio, sul lago di Como, durante un’escursione con la parrocchia era rimasta colpita da una chiesetta anglicana in stile neogotico circondata da un piccolo cimitero con le lapidi sconnesse che sembrava abbandonata. Non sapeva se fosse in vendita ma si era ripromessa di fare delle indagini. In capo a qualche tempo era venuta in contatto con William Grosvenor, ex pastore, divorziato, risposato e nuovamente divorziato. Grosvenor aveva offerto i suoi buon uffici presso la Chiesa Anglicana per sbloccare la vendita e aveva preteso ventimila euro di anticipo per spese di rappresentanza, cifra che aveva scialacquato malamente durante un paio di viaggi a Londra dove, a novembre, era rimasto bloccato e ucciso dal virus.
Alla notizia della dipartita di William Grosvenor Clarissa non aveva battuto ciglio. La morte era per lei un evento di ordinaria amministrazione – in effetti cosa c’è di più ordinario della morte? – e la perdita, o meglio l’estorsione, di 20.000 euro la confermava nella certezza del proprio destino: desiderare e sognare non facevano per lei. La cura, benché estrema come quella che dedicava ai cadaveri, e l’abnegazione erano la sua missione su questa terra.
Aveva, secondo me, anche un impressionante talento predittivo.
Quando glielo dissi mi rispose con la sua risata argentina (le rare volte in cui Clarissa rideva era come se un raggio di sole bucasse la coltre delle nubi) che nel suo mestiere ci si azzeccava sempre, essendo solamente una questione di tempo.
Nessuna evidenza potrà smuovermi dalla convinzione che il caso Grosvenor lo avesse architettato espressamente per dimostrare a se stessa che il suo posto era lì dove stava, con i piedi ben piantati a terra come una statua.
È da non crederci, eppure Clarissa aveva anche un fiuto speciale per le sculture d’autore. Dico che è incredibile perché non aveva studiato storia dell’arte, non aveva studiato quasi per niente – infanzia e giovinezza dedicate alla madre malata, ai fratellini da accudire, al padre invalido del lavoro, al marito più vecchio di vent’anni che se l’era presa in casa per sacrificarla alla cura di un figlio orfano e balordo che alla prima occasione era sparito nella ricerca del suo Puerto Escondido.
Non aveva studiato ma era istruita: aveva imparato la contabilità utilizzando con una particolare abilità i fogli excel per gestire la sua impresa; conosceva la storia e la pratica dell’imbalsamazione dei cadaveri sebbene non la praticasse e dopo aver visto il film Departures si era specializzata in trattamento estetico dei defunti e organizzazione delle cerimonie funebri.
Dopo che il beccamorto – così chiamava tra sé il marito – se ne era andato per sempre, Clarissa su consiglio di un avvocato aveva chiuso la ditta e aveva iniziato una nuova attività di tanatoesteta e funeral planner spingendosi, se richiesta, anche nella scelta dei monumenti funebri. Per educare il proprio senso estetico aveva percorso in lungo e in largo il Cimitero Monumentale con la macchina fotografica al collo e un blocco per gli appunti in mano con i mezzi guanti in inverno e un vecchio panama da uomo in estate. Aveva dedicato due anni di scampoli di tempo libero esclusivamente allo studio e alla catalogazione di tombe e edicole cosicché sapeva localizzare e riconoscere alla prima occhiata un’opera di Bazzaro, di Beltrami, di Portaluppi, di Ponti, Wildt e Melotti…
Sul suo biglietto da visita bianco spiccava la scritta Seredipity in Century Gothic grigio.
Clarissa non conosceva il significato della parola: l’aveva adottata senza riserve dopo che sua nonna, apparsale nel dormiveglia mentre teneva la mano al marito agonizzante, gliela aveva suggerita.
Nessun altro nome avrebbe potuto descrivere più felicemente ciò che Clarissa faceva veramente per i suoi clienti e per i loro congiunti.
Dopo averla ingaggiata, più di una vedova era rifiorita, avendo intravvisto per caso la libertà e la gioia di vivere laddove sembrava esserci unicamente l’orrore del vuoto in solitudine. Una volta Clarissa aveva dovuto convincere una donna a cambiarsi d’abito pochi minuti prima del funerale, facendole notare che l’abito di chiffon rosso, sebbene intonato al suo stato d’animo, fosse inadatto alle circostanze.
Posso testimoniarlo in prima persona poiché quella donna ero io, avevo 34 anni di cui dieci passati a prendere botte e a dissimulare i lividi.
Clarissa, che era cresciuta a pane e messe, sapeva suggerire i passi del Vangelo più adatti per consolare lo spirito di figli, coniugi e amici affranti. E siccome non si trattava di letture generiche, ma di brani scelti con il cuore che sembravano scritti proprio per quella persona colta dalla morte proprio in quel particolare momento della sua vita, il parroco corrugava spesso la fronte, ma non si opponeva perché si era reso conto che anche le sue omelie risultavano migliori. E di conseguenza le offerte.
Per i congedi laici Clarissa attingeva alla sua personale antologia che arricchiva continuamente con poesie e citazioni in un repertorio che andava da Dante a Shakespeare a Emily Dickinson passando per Eschilo e Montale senza trascurare gli U2 e Vasco Rossi.
Non aveva più alcun parente dopo che i suoi fratelli erano emigrati chi in Argentina chi in Australia. Un messaggio WhatsApp spammato a Natale e via. La natura le aveva fatto il dono della sghemba bruttezza di un viso scavato e a dir poco irregolare abbinato a un corpo flessuoso ed elegante che valorizzava ogni abito, inclusa la tenuta da messo comunale ricavata scucendo la scritta “Polizia Locale” dalla divisa dei vigili.
Invisibile e ignorata, Clarissa poteva rinascere ogni nuovo giorno.
La sapienza di cui era depositaria veniva da un lungo esercizio: ogni giorno ha la sua pena, quanto basta per arrivare a sera. Il veleno che aveva sorbito goccia-goccia dal giorno in cui era venuta al mondo: pora stelina, l’è propri bruta, aveva fatto di lei una creatura speciale, resiliente e empatica al tempo stesso.
Un giorno mentre aspettava l’arrivo di un feretro seduta sull’ultima panca della chiesa, le era capitato tra le mani un volantino a contenuto negazionista che qualcuno aveva infilato nel foglio delle preghiere piegato in due. Il COVID non esiste – era in sintesi la tesi – e la somministrazione di vaccini è un complotto planetario per modificare geneticamente gli esseri umani. Clarissa che ne aveva seppelliti negli ultimi dieci mesi quasi quanti negli ultimi cinque anni, aveva scosso la testa ma si era incagliata su una parola sconosciuta: mitridatizzazione. Aveva evitato di cercarne il significato su Google, sembrandole irrispettoso verso la bara che varcava in quel momento la soglia della chiesa accompagnata da una decina di persone, però aveva continuato a ripetere mentalmente il termine per fissarlo nella memoria.
La sera, nel suo retrobottega con il gatto (nero, ovviamente, come ci si aspettava da lei: perché deluderli?) acciambellato sul bracciolo della poltrona
aveva compiuto la sua ricerca su Mitridate e l’autoimmunizzazione all’avvelenamento tramite assunzione sistematica e progressiva della medesima sostanza di cui si vogliono neutralizzare gli effetti.
Che fosse scientificamente vero o meno aveva poca importanza per Clarissa, a lei importava l’improvvisa rivelazione del momento: io sono mitridatizzata.
Morirò, certamente, ma lo farò da viva nonostante nessuno abbia cura di me né mi ami. La natura mi ha dato la bruttezza che mi ha reso invisibile e immune alle lusinghe della vita e una volta che il mio insignificante corpo filiforme sarà scomparso, l’eco della mia compassione continuerà a rimbalzare tra coloro di cui io ho avuto cura, nonostante fossero cause perse.
Domani ho appuntamento con il notaio per la concessione di 99 anni della sepoltura – con contorno di decorazione arborea – n°175 al rialzato di ponente A: scultura in marmo di Carrara dal titolo Armonia Dolente scolpita da Leonardo Bistolfi nel 1912 che ho acquistato per svariate decine di migliaia di euro dagli attuali beneficiari a lungo riluttanti alla vendita.
Sistemazione sovradimensionata per un’urna, sono d’accordo, ma non ho neanche un’amica cui chiedere di spargere al vento le mie ceneri dal promontorio di Bellagio.
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