L’ape non è insetto? No, non lo è, è uno stile di vita, un modo di socializzarre uscendo di casa, evitando così di preparare la cena e sedersi a una tavola apparecchiata per uno.
Una vita senza ape
Questa mattina alla radio hanno ricordato che oggi è il primo anniversario dell’entrata in lockdown: un anno fa nemmeno conoscevo il significato di questa parola che ora è diventata unità corrente di misura del tempo.
Nel ricordo di noi tutti c’è un prima e un dopo lockdown;
il futuro prossimo è sempre minacciato dal rischio di un nuovo lockdown; nel presente dobbiamo fare i conti con gli effetti del lockdown sull’economia, le relazioni, la stabilità mentale… Finora però non ho ancora sentito parlare di nostalgia del lockdown.
Siamo seri, come si fa a provare nostalgia per uno dei momenti più cupi a memoria d’uomo?
Io ho nostalgia del lockdown del 2020 ed è questo il motivo per cui mi sono messa a scrivere. Ho nostalgia del silenzio, del tempo libero illimitato, dell’isolamento per decreto e della paura collettiva che, come tale, era una forma di condivisione, come i dj set e i concerti improvvisati sui balconi.
Diciamo che la mia vita non era un giardino fiorito di affetti e relazioni nemmeno prima. Ape per me è sempre stato nome comune di animale; eventualmente nome proprio di veicolo a motore su tre ruote; difficilmente associo ape ad aperitivo e quest’ultimo a certi assembramenti che si costituiscono a orari stabiliti davanti all’enoteca all’angolo. Io sono astemia, un’astemia autentica, non astemia per così dire di ritorno come gli ex alcolisti costantemente a rischio di ricaduta. Bere Prosecco in piedi in mezzo alla strada tenendo in equilibrio un calice e una vaschetta bollente di ravioli a vapore non è il mio ideale di divertimento, né di socializzazione, per non parlare della scomodità.
L’isolamento mi calza a pennello.
Ho provato, all’inizio, fastidio per lo stordimento che mi avvolgeva quando mi avventuravo fino al supermercato più vicino, la mattina presto per evitare la fila. Non essendo abituata alla mascherina mi sentivo privata di un senso, anzi per la verità tutti i sensi erano ovattati: appannata la vista per via della condensa sugli occhiali; attutito l’udito dalla barriera che assorbe le parole altrui; ovattato il tatto dai guanti di lattice che macerano la pelle delle mani; l’olfatto limitato a respirare il mio stesso fiato, aromatizzato al dentifricio solo all’inizio; mortificato il gusto.
Più tardi si è scoperto che la perdita di olfatto e gusto erano i primi sintomi dell’avvenuto contagio, ma anche chi non era stato colpito dalla malattia pativa, e continua a patire, una certa privazione di questi due sensi e, più in generale, una deprivazione del senso di realtà.
In lockdown ho imparato a fare a meno di ciò che non avevo
Avessi avuto un giardino, un terrazzo, un balcone, mi sarei messa a trafficare con terra e bulbi, ma avendo solamente finestre (grandi porte finestre con minuscoli davanzali aggettanti sufficienti appena per qualche vaso di fiori) ho piazzato una poltrona sulla traiettoria del sole tra le 15 e le 17 e mi sono regalata un paio d’ore di lettura all’aperto, abbronzandomi.
L’anno scorso non ero abbonata a Netflix e non avevo nemmeno un forno per cui non ho condiviso la mania per le serie televisive né la foga per l’arte della panificazione della prima ondata. Il mio tempo non è mai stato vuoto: ho studiato, scritto, partecipato a seminari su Zoom, contribuito a un progetto di volontariato, creato libri tattili per bambini e un abbecedario ispirandomi al mio della prima elementare, più di mezzo secolo fa. Ho comprato un tapis-roulant su Amazon e più tardi quando si era aperta la possibilità di uscire, anche una bici su ebay: ho assemblato entrambe gli attrezzi con grande soddisfazione personale.
Quel primolockdown mi è sembrato un dono piovuto dal cielo per facilitare il processo di trasformazione.
Per la prima volta nella mia vita ho fatto le pulizie di Pasqua a Pasqua, per la precisione nella settimana precedente.
La vera, grande novità che il lockdown ha portato nella mia vita è stata la ginnastica quotidiana. Ho sempre fatto fatica ad andare in palestra, nemmeno il pagamento anticipato di un semestre era bastato a costringermi. Pur di non frequentarla mi sono fatta venire una periartrite alla spalla: il disturbo era vero e mi è costato parecchi soldi di fisioterapia in aggiunta a quelli sprecati per l’iscrizione.
Questa volta la situazione era rovesciata: avevo rotto un piede – provvidenziale anche questo, in effetti – ma non potendo sottopormi alle sedute di riabilitazione mi sono organizzata un ciclo di esercizi che, a poco a poco, hanno coinvolto anche il resto del corpo con l’impiego di attrezzi improvvisati come bottiglie di acqua al posto dei pesi. E dopo un mese erano già diventati routine.
Quando ripenso a quel periodo vedo giornate luminose, tranquille, ordinate e piene di speranza.
Una bella vita, libera e senza fronzoli. Vestiti semplici e comodi. Ho cominciato a usare le sneaker per uscire e a togliermi le scarpe appena entrata in casa come i giapponesi. Ho recuperato energie e appreso nuove abilità e quando ho ricominciato a uscire ero piena di meraviglia e stupore, pedalavo per 20 chilometri senza fatica, felice di scoprire angoli della mia città che non conoscevo.
La seconda ondata, quella dello scorso autunno, non mi ha colto impreparata.
Mi ero procurata un tappetino da yoga e alcuni semplici attrezzi; ho acquistato un piccolo forno elettrico, una nuova sedia, un nuovo computer e un tappeto per rendere più accogliente il soggiorno-studio.
Quando i cinema sono stati chiusi nuovamente mi sono abbonata a Netflix e sono diventata serie-dipendente, così, tanto per non stare con le mani in mano, ho ripreso un lavoro a maglia iniziato dieci e forse più anni fa che ho portato a termine giusto durante gli ultimi episodi di Grace e Frankie. Il mio improbabile mega-maglione di mohair melange marrone e turchese mi ha tenuto compagnia per tutto l’inverno.
Ho passato da sola il Natale e da sola ho brindato al nuovo anno.
Poi è venuto il momento del passaggio alla dieta vegetariana (non del tutto, però, mangio sempre il pesce anche se ho eliminato definitivamente uova e formaggio) con la messa a punto di un sistema di approvvigionamento e preparazione dei cibi che funziona come un orologino svizzero.
Il lockdown ha fatto di me una donna libera e felice.
Mi alzo all’alba, comincio la giornata con il saluto al sole e la meditazione. Impiego un’ora per fare colazione leggendo tre o quattro quotidini on line. Vado a letto prima che inizi il coprifuoco di cui non mi importa nulla. Pranzo e ceno sempre seduta a una tavola ben apparecchiata ascoltando musica classica e qualche podcast. Bado alla casa, a me stessa e alle mie piante con la stessa dedizione.
I momenti brutti sono la notte se mi capita di non stare troppo bene perché so di non poter contare su nessuno e mi figuro che anche senza l’aiuto della pandemia morirò sola.
Ne ho percorsa di strada in questo anno e soprattutto ho imparato a non fare programmi.
Soffro per la mancanza di prospettive. Ho smesso di illudermi che il vaccino (chissà quando sarà il turno di una ultrasessantenne in buona salute e non appartenente a nessuna categoria se non quella di essere umano) darà una svolta alla mia vita. In questo anno sono diventata vecchia anzitempo, guardo in faccia la mia inutilità come un altro dono del cielo e rendo grazie per ogni volta che posso concludere la giornata senza che una cattiva notizia si sia abbattuta su di me.
Sono diventata un’ape
un’ape che non è un insetto, che non fa l’apericena, che non ha nemmeno un alveare. La mia comunità da virtuale sta diventando sempre più concreta: le persone che ho conosciuto dietro a uno schermo ora le incontro in carne ed ossa ed è tutto un abbracciarsi e complimentarsi a vicenda.
È una bella vita, la mia nuova vita. Ci voleva una pandemia perché me ne rendessi conto.
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