Pandemonio vs. pane degli angeli O-1. Da bambina pensavo che pandemonio fosse il pane integrale, una palla di pasta color segatura dalla crosta dura e croccante che diventava subito rafferma. Il pane degli angeli invece era la torta margherita spolverata di zucchero al velo.
Si era negli anni 60, nessuno si sognava di parlare di cibi biologici né di decantare la dieta mediterranea.
Si cominciava a star bene, a mangiare spesso carne e il ricordo del pane del tempo di guerra comprato con la tessera annonaria era ancora troppo recente perché gli adulti trovassero attraente quello nero.
Nella rivendita dei miei nonni la varietà che andava per la maggiore era quella all’olio: panini che somigliavano alle acconciature di certe signore che venivano in negozio con la borsa a rete, il golfino sulle spalle e i capelli arrotolati e fermati sulla nuca da forcine. Il pane all’olio aveva la superficie liscia, la crosta dura e friabile, una mollica bianchissima che si seccava subito, inadatta a farci le palline quando ti annoiavi a tavola.
Forse per questo il pane all’olio, nonostante il suo aspetto da levriero dei pani, non mi è mai piaciuto né mi piaceva che quando lo si spezzava la crosta cadesse a tocchi sulla tovaglia. E comunque nella mia famiglia la regina del pane era la michetta che veniva ammirata e riverita come un’imperatrice ogni volta che usciva dal forno lievitata ad arte e vuota all’interno.
La michetta ho cominciato ad apprezzarla alle scuole medie, grazie allo spaccio clandestino di merende della moglie del custode.
La signora Maria, che viveva con la famiglia nella guardiola al piano terra, arrotondava le modeste entrate del marito Giovanni gestendo un bar invisibile. Cominciava mettendo su la moka alle nove quando la prima ora stava per finire e i professori si infilavano di soppiatto nel cucinotto per non essere visti dalla preside, alla quale il caffè veniva portato personalmente in ufficio dalla Maria. Gratis. La dirigente, in cambio, chiudeva un occhio evitando di farsi vedere in corridoio durante l’intervallo delle dieci quando la Maria con l’aria da cospiratrice si aggirava tra i gruppetti di ragazzini per distribuire michette imperiali appena sfornate, imbottite con prosciutto cotto tagliato sottile e farcite con esili strisce di peperoni sotto aceto rossi e gialli.
Per affiliarsi alla carboneria dei panini occorreva essere introdotti da un compagno fidato, pagare in contanti e tenere la bocca chiusa. Qualcuno dei maschi che aveva provato a rivendere il proprio era rimasto semi carbonizzato dallo sguardo di brace di Giovanni e radiato per sempre dall’elenco degli aventi diritto.
Ecco, ci risiamo, mi sono distratta un’altra volta. Dovrei scrivere una ricetta per partecipare a un contest di un blog gastronomico. Cioè? Provo a spiegarlo con un esercizio di descrizione che ci veniva assegnato ogni settimana dalla prof. di italiano.
Ho deciso di partecipare a un concorso a premi che si tiene su Internet…
Sono già bloccata. Chi, negli anni ’70, avrebbe immaginato una cosa come Internet? Va bene proseguiamo. Il concorso consiste nello scrivere una ricetta improbabile. Primo premio in palio: lavorare con una start up culinaria (e questa, come la spiego?) innovativa e creativa.
Una vocina disfattista mi sussurra che il lavoro non lo otterrò mai (a che punto stai con il SEO? Ma li sai leggere davvero gli Analytics? Quando è stata l’ultima volta che sei andata su Facebook? E che mi dici di Instagram? E di Tik Tok?). Intanto una seconda voce, quella fattiva, attacca con: mai fermarsi soprattutto ora; lo smart working è una grande opportunità per te; provare non ti costa nulla; ti stai auto sabotando…
Apro un documento, apro una finestra di navigazione, apro una mail, apro l’annuncio di lavoro, apro l’allegato… chiudo il computer scoraggiata.
Mi alzo, vado in cucina, riempio per un terzo una ciotola con farina di grano saraceno, creo uno spazio al centro, verso del lievito in polvere e comincio a scioglierlo in acqua tiepida incorporando via via la farina con un cucchiaio di legno e intanto penso alle decine di quaderni che ho riempito. Alle lettere tracciate a matita; alle parole scritte con la biro Bic dalla cannuccia gialla e il cappuccio nero rosicchiato. La farina si sta trasformando in un impasto umido e colloso.
Fogli a righe, fogli a quadretti. La penna stilografica, la macchia di inchiostro nero come un tatuaggio sul callo del terzo dito della mano destra. La macchina per scrivere con il Tippex che copre gli errori. L’elaboratore di testi con lo schermo grigio; il fax con i rotoli di carta chimica; il computer con il programma di videoscrittura, i floppy disk…
Incorporata tutta la farina è venuto il momento di mettere le mani in pasta. Il composto elastico si compatta. Devo lasciarlo riposare per 15 minuti, coperto con un panno.
Torno alla pagina sullo schermo.
La carbonara si mangia esclusivamente con la panna.
Pochi lo sanno, ma la pasta alla carbonara più gustosa viene preparata con la panna che la rende preferibile anche dal punto di vista nutrizionale.
Guardo perplessa le tre righe che ho scritto. Mi alzo di nuovo, torno in cucina, lavoro ancora un poco la pasta che intanto si è asciugata diventando elastica. La dispongo in due stampi rettangoli per farla riposare altre tre ore.
Ricomincio a scrivere:
Per prima cosa la panna amalgama meglio del tuorlo d’uovo che, privato dell’albume, perde quasi tutto il suo potere agglutinante. La panna, invece, lega gli ingredienti in una nuvola di cremosità soffice al palato creando un delicato contrasto di con il guanciale di cui esalta il sapore.
La seconda ragione per preferire la panna al tuorlo d’uovo è che quest’ultimo cuoce con il calore della pasta producendo un istantaneo effetto grumoso da uovo-strapazzato-in-padella, sgradevole al gusto non meno che alla vista.
Infine la panna, al contrario dell’uovo, può essere prodotta con ingredienti esclusivamente vegetali (latte di soia o meglio di avena o farro decorticato e olio di semi, meglio se di canapa) ed è quindi ideale per la preparazione di una carbonara vegana priva di grassi animali. In questo caso è necessario anche sostituire il guanciale con seitan affumicato.
Per ottenere il caratteristico colore giallo occorre aggiungere zafferano (consigliato quello abruzzese di Navelli da pistilli di croco al 99%) che conferisce la caratteristica nota aromatica mediterranea.
Fare il pane è una poesia. Mi riesce facile come camminare ed è sempre un successo. Mi rincuora, soprattutto nei momenti difficili come quello che stiamo attraversando e non devo essere l’unica a ricorrere a questa consolazione a giudicare dal cartello apparso nel supermercato che limita l’acquisto di lievito a un panetto per carrello.
Fare il pane è una piccola rassicurante magia domestica
che funziona come i pensieri, che mescola insieme ricordi e desideri, che ha bisogno di riposo e di calore per diventare quello che è destinato a essere.
Vengo da una famiglia di panettieri ma finora, finché non sono stata costretta a starmene tranquilla in casa, non avevo realizzato quanto il mestiere dei miei nonni fosse straordinario e potente e di quanto mi appartenga. Finisco di scrivere.
La ricetta della carbonara alla panna, pur gratificando egregiamente i palati più sofisticati, è anche un ottimo esempio di autentica cucina popolare italiana, come testimoniato dal suo stesso nome. La pasta alla carbonara era infatti il piatto che i carbonai preparavano per il loro pasto all’esterno delle miniere. È dunque assai improbabile che costoro portassero nel proprio sacco un ingrediente come l’uovo, facile a rompersi, mentre è possibile che disponessero di prodotti a base di latte che, come si sa, ha proprietà depuranti su organismi come quello di minatori e carbonai sottoposti alle aggressioni della polvere di carbone.
Va inoltre ricordato che i soldati americani – cui secondo un’altra narrazione si deve la ricetta della carbonara con l’impiego di ingredienti della razione militare – disponevano per lo più di uova liofilizzate che usavano stemperare con latte condensato, la cui consistenza è appunto molto simile a quella della panna.
Ho scritto una sciocchezza? Non so dirlo.
Torno in cucina. L’impasto è lievitato e riempie per intero gli stampi che infilo nel forno pre riscaldato.
Ritorno al computer, rileggo, salvo in un pdf che allego alla mail. Resto a fissare lo schermo.
Infondo pandemonio potrebbe essere il nome di un pane
come baguette, michetta, pagnotta. Un pane che ha il potere speciale di metterti in contatto con il tuo daimon e lasciarti in pace con te stesso.
Il timer del forno trilla. Invio.
2 ottobre:
Storie per rimettersi al mondo
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10 ottobre:
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24 ottobre:
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31 ottobre.:
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7 novembre:
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