Che genere di parità è quella che ignora le differenze?
Un genere di ordine che crea confusione
Domenica 25 settembre ore 11.40 c’è una lunga fila che si snoda nel corridoio della scuola.
Cerco di orientarmi suscitando probabilmente il disappunto di qualcuno. La signora alla quale mi rivolgo mi conferma che le persone in coda sono tutte in attesa di essere ammesse al seggio dove devo votare anch’io (davanti agli altri seggi non c’è quasi nessuno in attesa) e aggiunge che siamo tutte donne. Mi guardo intorno e le rispondo quasi sussurrandole all’orecchio attraverso la mascherina che è sempre così, a cominciare dai bagni pubblici, quindi prendo posto alla fine del serpentone.
Durante l’attesa apprendo che in quel seggio vige la regola d’entrata che alterna una donna e un uomo. Sembrerebbe un principio corretto, ispirato alla parità di genere. Arriva un quarantino, come direbbe Montalbano, in tenuta sportiva e entra immediatamente, quasi di corsa come è venuto, perché di altri uomini a rispondere alla chiamata al momento non ce ne sono. Sposto il peso da una gamba all’altra. Esce intanto il signore che gli ha ceduto il posto, prende con sé il figlio che stava in coda con la madre rimasta indietro di parecchie posizioni. Ciao ciao e se ne vanno. La gentile signora con la quale ho scambiato due parole è ora in pole position, fuori dalla fila le fa compagnia il marito che ha già votato.
Micro conflitti di genere
Sopraggiunge una donna anziana che si appoggia a due bastoni, accompagnata da un ragazzo e chiede di saltare la fila; la signora in attesa davanti alla porta si fa da parte alzando gli occhi al cielo. Sposto due volte il peso da una gamba all’altra.
Quando finalmente guadagno la seconda posizione davanti a me si apre uno scorcio dell’aula. Quattro banchi sono disposti davanti alla porta: dietro a due siedono dei ragazzi, dietro agli altri due delle ragazze. I ragazzi che gestiscono l’elenco dei votanti hanno appicciato sul banco un pezzo di nastro da imbianchino su cui è scritto in brutto stampatello UOMINI. Le colleghe che presidiano la lista delle votanti siedono dietro un cartello di cartone grezzo dove qualcuno ha vergato con il pennarello rosa in bei caratteri la scritta FEMMINE.
Comincio a grattarmi un braccio. Guardo le almeno venti donne in coda dietro di me. Un signore appena arrivato e già chiamato al seggio si scusa e varca la soglia senza riuscire a dissimulare la soddisfazione. Mi prude anche l’altro braccio. Sono la prima della fila. Mi rivolgo alle due che mi seguono chiedendo se hanno capito il motivo di tanta lentezza. La nuova procedura antifrode. Solo in questo seggio? Ma, scusate, avete notato anche voi le scritte? Uomini e femmine? Mica siamo animali ribatte la giovane dietro di me.
Non è il caso di fare storie al seggio, anche perché il presidente – che non vedo ma immagino essere individuo privo di senso pratico – avrebbe un qualche regolamento da sventolarmi sotto il naso. Il giorno seguente trovo sulla stampa britannica un trafiletto che parla proprio di questo.
Finalmente mi chiamano. Lì, in piedi davanti al banco delle femmine mi sembra di essere un’attempata scolaretta chiamata alla cattedra per un’interrogazione di tabelline. La liceale vestita come nei collettivi degli anni ‘70 (espressione colta al volo qualche giorno prima in un gruppo di attivisti di Fridays for Future, per i quali gli anni 70 dello scorso millennio sono aritmeticamente lontani quanto lo erano per me gli anni 20 del ‘900 quando avevo la loro età) prende i miei documenti mentre la sua collega con le treccine – italiana di seconda generazione, si direbbe dall’accento marcatamente milanese – cerca il mio nome nell’elenco.
Una volta registrata, tiro fuori il mio personaggio anziana-tonta-bisognosa-di-spiegazioni e domando se posso fare una domanda. Certamente signora. Se su quel banco c’è scritto UOMINI, come mai qui c’è scritto FEMMINE? La ragazza del collettivo salta fuori dal guscio del suo maglione, scatta in piedi e strappa il cartello, gira il cartone e scrive a biro DONNE, poi rimane con il cartello in mano non sapendo come appiccicarlo di nuovo al bordo del banco. Intanto, poco elegantemente, faccio il segno di vittoria con in braccio abbandonato lungo la gamba perché non si noti troppo. Stravaganze dell’età matura. Ringrazio le ragazze per essere lì di domenica e faccio notare che lo spettacolo di loro due con davanti la scritta FEMMINE non era proprio edificante.
Sento chiamare il mio nome. Il presidente del seggio mi invia alla cabina 1 rifilandomi un matita che avrrebbe tanto bisogno di essere temperata. Ma non si può.
Che desolazione, che incuria! Occupiamo le scuole dei piccoli per giocarci, noi adulti, all’esercizio della democrazia e non lo facciamo nemmeno come si deve.